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La lotta alla mafia nel libro del generale Pellegrini

Si è conclusa ieri la manifestazione culturale de “ Il maggio dei Libri” portata avanti con gran forza dalle Associazioni Arca & 1960 e patrocinata dal Comune di Montelepre, con la presentazione del libro “ Noi gli uomini di Falcone: la guerra che ci impedirono di vincere” del Generale Angiolo Pellegrini.
Ieri, l’allora capitano dei carabinieri Pellegrini, oggi generale, racconta le molteplici avventure di quella stagione insanguinata, fatta di terrorismo e criminalismo, una stagione a cui non viene data la giusta luce e che andrebbe affrontata nelle scuole con lo stesso vigore con cui si affrontano le due guerre- sottolinea il Generale- perché è giusto che le nuove generazioni, sappiano cosa hanno passato magistrati, carabinieri e molte persone impiegate nella lotta contro la mafia in quegli anni molto spesso messi nel dimenticatoio. È ancor più giusto ricordare e richiamare alla memoria la vera storia d’Italia, come siano andati realmente i fatti perché non è lo Stato che si è tirato indietro bensì gli uomini dello stato che mancarono di coraggio e cedettero debolmente nella guerra.
Un racconto, il suo, che è un’epopea dai toni pacati. E che intreccia le vicende personali dell’io narrante con quelle di Falcone e di altri commilitoni sul fronte di una guerra che da istituzionale divenne a tratti personale.
Arrivato in Sicilia, il Generale, non perse tempo nel costituire una squadra di uomini fidati, poche le persone di cui potersi fidare, pochi perché ovunque si girava trovava qualcuno che di li a poco avrebbe ceduto alle grinfie della Mafia; si guadagnò con il tempo la stima e il titolo di collaboratore di Falcone; arrivato in un tempo in cui esser uniti contro il cancro della Sicilia, poteva esser l’unica soluzione per andare avanti e provare a vincere quella guerra. E’ il periodo più angoscioso della lotta a Cosa Nostra, cercato di esser mandato avanti con tutte le forze a disposizione, mentre i “viddani” di Totò Riina e Bernardo Provenzano distruggevano a colpi di Kalashinikov le vecchie famiglie e per le strade di Palermo sprofondavano le vite di Dalla Chiesa, D’Aleo, Chinnici, Cassarà, Montana. Un periodo che condusse il generale a diventare un uomo tutto di un pezzo, ad esser freddo perché era quello il momento di non cedere ai sentimenti che lo attanagliavano e mostrarsi deciso per non far cadere le certezze che la sua squadra riponeva in lui, segni che ancor oggi si porta dietro.
Una vita, quella del Generale, vissuta per metà on the road e per metà al comando della sezione antimafia, nelle aule dei tribunali siciliani, a bordo delle Alfette con i lampeggianti e delle auto civetta, nel buio – avanti e indietro – che conduceva alla stanza blindata del numero uno della Procura palermitana.
Ieri Pellegrini ci ha raccontato dei retroscena ancor più clamorosi che lo videro protagonista fin dal primo dibattimento di quel processo. Una percezione improvvisa una reminescenza sentita in quel di Palermo che ritorna nella sua mente e che appuntò nella sua agenda di quel 1984: CHI TOCCA I SALVO MUORE E NON SOLO FISICAMENTE.
Poco prima di morire, Chinnici aveva allertato il giovane ufficiale: “Capitano, si tenga pronto, sto per disporre l’arresto dei Salvo”. I cugini Salvo al tempo erano al vertice del potere in Sicilia. Disponevano a piacimento, loro e il loro socio messinese Cambria, della politica, della magistratura, delle forze di polizia, dell’informazione, dell’imprenditoria e di un’infinita schiera di cortigiani. Per questo il preparativo dell’arresto di Antonino e Ignazio Salvo era per Chinnici un affare da trattare nel modo più riservato. Morto Chinnici, per la decisione di come impostare il rapporto per la magistratura, “a tirarci fuori dalle secche ci pensò Ninni Cassarà. Ninni lavorava spesso fianco a fianco con i pubblici ministeri della procura palermitana. Ci riferì che i sostituti procuratori Vincenzo Geraci e Alberto Di Pisa gli avevano rivelato, in via confidenziale, che nei giorni precedenti alla morte di Chinnici avevano chiesto di acquisire le prove emerse a carico dei Salvo nelle inchieste sull’omicidio Inzerillo e sulla scomparsa dell’ingegner Ignazio Lo Presti”. Quelle circostanze Cassarà le ribadì deponendo da testimone a Caltanissetta, affermando “di aver saputo in via riservata dai pm Geraci e Di Pisa che, poco prima di essere ucciso, Chinnici li aveva messi al corrente dell’idea di indirizzare finalmente le indagini verso il famoso terzo livello politico mafioso”, per ottenere rapidamente “l’arresto di Nino e Ignazio Salvo. Ma i magistrati della procura della Repubblica di Palermo non confermarono. Anzi, smentirono di essere al corrente delle intenzioni del consigliere istruttore e, per cavarsi d’impaccio, si nascosero dietro cavillosi tecnicismi.
Un libro bello ma soprattutto ricco di sfumature su un tema che molto speso viene messo in terzo piano; lineare e ben scritto, alla portata di tutti i lettori. Lo si può inserire nel genere storico, che si potrebbe adottare anche nelle scuole, costituendo un metodo alternativo di studiare questo particolare periodo storico che ha segnato la nostra Terra e non solo.
Una storia toccante, di persone realmente esistite che hanno visto con i loro occhi l’uccisione di amici e parenti in un silenzio agghiacciante, mascherato da cerimonie pompose e poco sentite. Esempio lampante di quanto la politica possa essere “cancerogena” nel Bel Paese. Lo stesso Buscetta, molti anni dopo le sue confessioni, incontrando il generale, esprime il suo dispiacere per quanto ancora poteva essere fatto.
Indagini bloccate volutamente, e lo stesso titolo lo lascia intendere: […] La guerra che ci impedirono di vincere. Ed è proprio in questo messaggio velato, ma non troppo, che il libro scrolla le coscienze dei cittadini più onesti. La mafia può essere combattuta, anche se è pur vero che non siamo tutti dei Falcone o dei Borsellino, non abbiamo tutti il loro coraggio, c’è chi fugge, scappa, non affronta le realtà nude e crude che avvolgono la nostra terra, perché di coraggio si tratta quando si mettono da parte i propri sentimenti, quando si mette a rischio continuo la propria vita e quella della propria famiglia, quando ci si alza dalla poltrona dell’ufficio blindato e si corre per dar giustizia, come il Generale Pellegrini si trovò a fare.

La lotta alla mafia nel libro del generale Pellegrini ultima modifica: 2016-05-28T10:52:53+02:00 da Gloria Migliore
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